venerdì 15 gennaio 2010

"Benvenuti su Pandora"


Si può affermare che Avatar sia l'esperienza cinematografica definitiva, che gli effetti speciali e il 3-D ci catapultino dentro il film, che la percezione sensoriale dell'ambiente vada oltre l'iperrealismo, che si può quasi sentire l'odore dei muscoli spalmati d'olio del colonnello Quaritch, che si avrebbe voglia di prendere tra le mani il bellissimo viso alieno della na'vi Neytiri e baciarlo, di acchiappare uno dei semi dell'Albero delle Anime, eppure niente di tutto ciò rende davvero l'idea. Sarebbe come cercare di descrivere il sole a chi non l'ha mai visto o un sentimento a chi non l'ha mai provato. Avatar va oltre le percezioni: è emozione allo stato puro. Tre ore di esperienza, non di spettacolo. Tre ore su Pandora.

Con questi presupposti, James Cameron si è potuto permettere il lusso di raccontare una storia che riecheggia i classicismi di Balla coi Lupi e Pocahontas e che presenta situazioni e personaggi stereotipati quali un colonnello cattivo dei marines intenzionato a sterminare la popolazione locale per il possesso di un prezioso minerale. Stereotipo sì, ma non ha bisogno del 3-D per essere realistico. 

Cameron ci fa immergere in questo viaggio quasi in prima persona, che è in fondo il significato del 3-D, seguendo dall'inizio alla fine le vicissitudini del marine paraplegico Jake Sully senza mai staccarci da lui. Con lui entriamo nell'avatar na'vi, con lui c'innamoriamo di Neytiri, con lui soffriamo, ci emozioniamo e combattiamo. Con lui ci manca il respiro nel momento cruciale della storia. 

E i na'vi sono tangibili. Esistono. Dentro e fuori lo schermo. Dentro e fuori di noi. Esistono fisicamente, esistono con i loro usi e costumi, con il loro credo, con la suggestione delle loro cerimonie religiose. Ed esiste Pandora. Con la sua flora multicolore, reminiscenze del regista delle sue escursioni subacquee, e con la sua fauna selvaggia e feroce. 

I recettori sensibili nei capelli dei na'vi permettono loro di interfacciarsi con tutte le forme di vita locali creando un rapporto simbiotico psicofisico e, soprattutto, spirituale. La quintessenza stessa del concetto di ambientalismo. Se muore un filo d'erba, muore una parte di noi. 

C'è tutto: le prove da superare per ottenere la fiducia e l'ingresso nella tribù, la storia d'amore, la tragedia dello sterminio, il tradimento, la presa di coscienza, la reazione e l'orgoglio del popolo nativo. E, immancabile, la battaglia finale. La natura incontaminata contro la fredda sterilità del progresso, come gli Ent di Tolkien contro l'industria di Saruman, come gli Ewoks di George Lucas contro le macchine imperiali. Tutti gli ingredienti del polpettone sono presenti. E sapete una cosa? A me il polpettone piace da impazzire. 

Le insensate accuse di razzismo mosse al film sono state forse causate dal finale. E' giusto che per essere accettato dalla popolazione indigena, il protagonista debba diventare uno di loro? Non sarebbe più etico accettarsi gli uni con gli altri con le proprie diversità ed imparare a convivere con i propri handicap? Oppure è encomiabile la scelta di un uomo di abbracciare un'altra razza ed abbandonare una civiltà decadente più dentro che fuori? Cameron giustifica la scelta con l'incompatibilità biologica tra le due specie e lascia, com'è giusto, ogni interpretazione al pubblico. 

A proposito di interazioni e mescolanze, l'unione di forze tra la Weta di Peter Jackson e l'ILM di George Lucas per creare questo miracolo è commovente. Vi vedo, ragazzi. Vi vedo. Ora resta la sfida dell'home-video, provare a trasferire l'emozione nel supporto casalingo per rendere il film immortale, non solo per quei pochi prescelti in possesso di un impianto video all'avanguardia. Perché il cinema è di tutti e, da oggi, è cambiato per sempre.

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